Roberta Baldaro è nata a Catania nel 1975.
Si occupa di fotografia e disegno, è docente a contratto presso l’Accademia di Belle Arti di Roma (precedentemente Catania e Urbino). Tiene workshop e seminari sul linguaggio fotografico. Si trasferisce nel 2009 in Emilia-Romagna, a Cesena.

“Per descrivere la poetica di Roberta Baldaro vorrei partire da un topos ormai consolidato della critica fotografica, da quell’assunto barthesiano che individua il noema della fotografia nel «ça a été» (ciò è stato), ossia in un principio di irreversibilità dell’immagine e del contenuto da essa proposto. Immortalare con la macchina uno scorcio, una figura, un momento significa per Barthes consegnarlo alla catastrofe, alla sua tragica irripetibilità – significa inchiodarne il tempo, altrimenti suscettibile di una infinità di variazioni, stati, ripensamenti, verso la perentorietà di un atto unico. Se ho citato queste premesse non è per avvalorarle ma solo per servirmi di esse come contrappunto, dato che l’operazione di questa artista mi pare intesa a disattenderle in toto. Perché a mio avviso nei suoi scatti emerge, con estrema circospezione e formidabile grazia, un principio di natura opposta, che ha anche il pregio di spingere la sua pratica in quelle benedette zone di confine capaci di darci un saggio di quanto in campo artistico siano labili gli steccati di genere.
Mi riferisco ovviamente al leit motiv cui si àncora pressoché tutta la sua produzione: intendo quell’ostinato contagio tra supporto fotografico e segno grafico, inclusa quell’eccentrica combinazione di staticità e virtualità che questo innesto è in grado di produrre. Prendendo le mosse dall’istantanea, la cui prerogativa è quella di arrestare l’oscillazione della realtà fissandola una volta per sempre, Baldaro ne scombina lo statuto, insinuando in essa delle forme in divenire: sono particelle discontinue, tratti supplementari, presenze oggettive che sembrano sbucare dal nulla e che sortiscono l’effetto di movimentare l’intera superficie iconica, dentro e fuori i suoi margini.
La leggibilità totale della scena, punto d’arrivo del medium fotografico, viene come minata da questi solchi di grafite, da queste interferenze certosine e infinitesimali, paradossalmente più “vere” dell’anastatica digitale e che tuttavia, proprio in virtù di questa evidenza straniante, finiscono per ricondurre il suo discorso all’ordine del simbolico, di ciò che facendosi indizio di una direzione del senso ne sottintende mille altre.
La cosa più sorprendente è che in questo intreccio dei due registri non si dà alcuna frizione: Roberta Baldaro riesce a realizzare un perfetto camouflage dei diversi strati, grazie a quella intenzione analitica, a quella clarté cartesiana che interessa sia la composizione fotografica come quella vergata a matita. In un reciproco scambio, in una sorta di renvoi miroirique, le due zone si toccano, si sollecitano, a volte senza soluzione di continuità, alle altre instaurando una dialettica imperfetta, nella quale a prevalere è l’inserzione analogica – il taglio o coupure provocato dal disegno. È su questo doppio binario (inquadratura e fuori campo, coesione e frattura) che si attua il suo racconto o, come sottolinea l’artista, il suo pegno di restituzione: “Sottraggo immagini dal mondo. Certo, sono fotografa. Ma il mio è un furto che si sdebita col disegno. Quando il grigio della fotografia e la grafite si confondono, è allora che restituisco la refurtiva: l’immagine è diventata altro, un’ipotesi, un posto nuovo”.  Perché qui, in ultima istanza, non si tratta di una sovversione della veridicità dell’immagine ma di una apertura al probabile di lei, a ciò che essa, spesso a nostra insaputa, potrebbe ancora rappresentare.”

Roberta Bertozzi